febbraio 12, 2012

sento il tabacco in polvere della sigaretta stringersi in gola
si direbbe un giorno calmo, le signore entrano e escono dalla chiesa, il mercato in fondo alla via non è poi così rumoroso e credo che qualcuno vada in bicicletta nonostante questo freddo indifferente.
ma il modo in cui il giorno entra dalla finestra aperta è brusco e livido
il mio letto disfatto è sempre più simile a una zattera da naufragio. il cuore in burrasca. alcuni oggetti senza passione nè modestia si contendono lo spazio, qualcuno cade dagli angoli con un tonfo.
arrivano sempre i pirati la domenica

gennaio 11, 2012

ho mangiato degli spaghetti al sugo che mi son sembrati subito tentacoli di polipo così me ne sono sbarazzata, inorridita.
devo avere degli occhi molto tristi, ne sento spesso tremare il contorni
e a volte si spengono, su  parole sottomarine che s’abissano     gluglu

spiccioli momentanei

agosto 20, 2010

avevo fissato gli spigoli delle pareti alcune ore ma continuavo a vedere soltanto spine dorsali. vorrei conoscerli questi camaleonti  domestici che cuciono le mie distorsioni, perchè mi insegnino il trucco, lo schiocco di dita.  certe volte si infilano nello spazio tra le mattonelle e nemmeno chilogrammi di candeggina e calore placano i segni del loro venire.     si muovono con lo stesso principio che i critici cinematografici chiamano rivisitazione                   lo posso spiegare, è come se nella stanza entrasse qualcuno a mettersi una forcina per capelli dal pavimento in tasca, si versasse il caffè nella tazza della dentiera e lo lasciasse depositare sul fondo e poi andasse via. e noi vedessimo tutto.   fanno così i miei camaleonti ma ho gli occhi troppo stanchi per seguirli

sono gonfi dal sonno, gonfiati da un’idea malsana: vorrei avere due vite. che si snodino parallele come un dna e non si incontrassero se non per caso, nella discesa o salita da un tram.

in una delle due sarei circa così, forse coi capelli più lunghi e i discorsi spuntati di quattro o cinque dita. e piangendo farei cerchi concentrici nell’acqua della pozzanghera. sfamerei i passeri davanti all’università, e saprei conoscere l’amare a sorgente che sgorga e viene imbottigliato, etichettato con lo stesso nome, riposto sugli scaffali e poi bevuto, bevuto, pisciato e bevuto di nuovo (altissimo e purissimo).

nell’altra non lo so, forse niente. magari sarei una grande onda, che non conosce che un modo per parlare e s’increspa contro gli scogli nel mare di gennaio. saprei amare a giorni alterni senza per questo desistere dalla mia natura.  e dire al vento “appiattiscimi e piegami come un origami, e scoprimi sul palmo di una mano quando sarai solo”    senza tradire nessuno, nè sbagliare o andare alla deriva.

non scrivo d’estate, mi graffia le mattine e i pomeriggi, e a mezzogiorno la luce  è dittatura (fa paura)

giugno 19, 2010

da casa mia si vedono gli occhi della collina, si vedono anche i camini ma non parlano più di niente. c’è una finestra rossa, tra quelle buie e le altre, accese. dentro si consumano chissà quali meraviglie. c’è anche la mia sigaretta che si consuma, si consuma si consuma

dopodomani è il mio compleanno, ma io non mi consumo, non ardo. vivo

 (?)

(la foto è di yashica, la nuova macchina fotografica, pellicola. il cielo è di torino ma è più azzurro di così)

sono in quella fase della mia vita, un pò poco copernicana,                                                                                                                                                               in cui ho la sensazione (di un fisicità pari ad una borsa dell’acqua calda) che ogni presenza in questo mondo esista solo perchè in qualche modo influisce su di me. anche le amache del messico, certo. “chi s’è visto s’è visto chi non s’è visto non c’è”                                                                                                                                                          ne parlano pure gli scrittori, di quando erano bambini e gli pareva che uscendo dalla stanza, una volta che non s’era più lì a vederli, gli oggetti si liquefacessero in una specie di vuoto potenziale.  o che magari un addetto spaziale si occupasse di arrotolare tutto quanto come un kebab o un sacco a pelo, per mandarlo a scomparire.  (fino al prossimo ingresso che avrebbe rispiegato ogni cosa come un silenzioso pic-nic)

mbè. ero in quei dieci giorni della mia vita ma non più. stamattina fu speciale come un meteorite di migliaia di settimane fa. un signore dagli occhiali gialli e dalle lenti immaginarie m’ha donato quello che un occhio inesperto avrebbe scambiato per un pezzo di puzzle, un frammento d’un solo colore.

“eccoti un pezzo dell’universo. scommetto che mai nessuno te l’aveva regalato prima” (fagli fare il giro del mondo)

scomparse nella folla lasciandomi nemmeno un momento d’ora in poi.